Il secolo comincia rasoterra
 
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Cella/appartamento

Ultimo Aggiornamento: 27/03/2008 09:56
21/02/2008 20:44

Sebbene la poesia riguardo all'eroina non sia ancora completa, inauguro qui una nuova possibile tematica su cui poetificare: l'appartamento come cella... non sto parlando della cameretta alla Petrarca, o alle solite poesie sulle 4 mura che ci racchiudono, ma a un testo che tracci una via crucis del nostro abitare, del nostro aggirarci per le varie stanze nel tentativo di trovare un senso alla nostra reclusione. L'idea è: ognuno di noi scrive una strofa (di lunghezza a piacere) che ha come ambiente una stanza della casa (soggiorno, cucica, camara da letto, bagno); questo tipo di suddivisione ci permette di provare un nuovo approccio al testo collettivo, cioè un approccio di costruzione parziale che frammento dopo frammento si fa totalità, in quanto io ad es scrivo la prima strofa sulla cucina, poi Morfea la seconda sul soggiorno, ecc la poesia si fa mano a mano, con una maggiore omogeneità e coesione di messaggio. Secondo me vale la pena di provare questo metodo per poi affiancarlo a quello del taglia e cuci delle varie versioni, che ha come punto debole una forte discontinuità del testo, che talora compromette il risultato globale. Che ne dite, vi piace il tema? Siete d'accordo sul metodo di lavorazione? Fatevi sentire esercito di sperimentatori [SM=g8083] ave

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22/02/2008 01:26

[mi garba! e scrivo qualcosa]
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22/02/2008 19:48

anch'io scrivo..anch'io. posso scrivere del cesso? dai...a me il cesso!!

p.s. so che non dovevo partecipare tanto...ma credevo semplicemente che voi partecipaste di più!! [SM=g8080] sto lavorando alla sistemazione di "viva l'eroina libera". [SM=g8091]
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25/02/2008 18:15

scrivi dal cesso o dall'orinatoio, quelle belle turche con un buco in mezzo da scivolarci dentro. Quella si che sarebbe progionia :D


Io avevo, ho, scritto qualcosa sull'argomento. Per l'officina della poesia creativa Racconto vestito che il perro Paco ha anche letto.

Se volete possiamo partire da quello spunto...

Comunque prima di orientarsi su questo lavoro bisogna completare l'altro.

necroloquio
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03/03/2008 15:15

un'idea tratta da me, da ibsen, dal teatro individuale
La finestra

1

Letto tiepido. Un piede scalzo sotto la coperta di lana. Il calore che scende tra le righe della pelle, fino ad arrivare dentro le ossa. Le mani umide, il freddo evaporato nel sudore.
Una maglietta di cotone rosa, impigliata sulle scapole, traccia sulla schiena una piega dolorosa, da poter ricalcare nell’acqua fredda, al mattino. La figura di lei spesa sul materasso. Quel ricamo giovanile sulla stoffa e il seno curvo, premuto sul cuscino. Le gambe slacciate su un acquerello, dove la tela cuce il movimento leggero, sulle sue labbra dure. Anche e gomiti scrosciano, come aghi, tessendo il sonno. Un sonno che si infila nella camera scura senza far rumore.

2

La stanza non è ben vista dal vicinato. Sporge su un cimitero e le persiane restano sempre chiuse. L’aria è afona, non emette suono. Quando la ragazza si alza sembra sospesa. Quando le cose gli scivolano di mano, non toccano terra. Il cielo non mostra il suo azzurro, le sue nicchie viola sparse all’orizzonte. Le tende non conoscono la distensione di una mano.

3

La gente nelle bottega mormora. Sulle mani incrocia filamenti d’ira da poter indirizzare sulla finestra, appesa al palazzo, estranea. Il panettiere spreca poche parole sull’uscio della camera. Saluta con la farina impastata nella bocca, con il grembiule bagnato dalla notte unta nel forno.
Gratta il suo mento robusto, aspettando che qualcuno apra il suo attendere. Riceve i soldi dalla fessura sotto la porta e striscia via nei saluti. Muti. Il pane non serve alla ragazza, tanto meno luci, sorrisi. Non apre mai la porta. Il panettiere non ci fa caso, il suo pane è preso ogni mattina. Qualcosa deve pur uscire dalla porta, esordiva davanti alla clientela.
Il mio pane non va in giro a bussare. La signorina non ama essere disturbata.
Le sue parole sembravano turbate, uscivano sconnesse, senza un filo logico.
Tratte da una lingua che correva su dei piccoli pezzi di granito.

4

Il cimitero prestava un panorama trascurabile. Lei non si era accorta della vicinanza delle tombe. Le persone la conoscevano come un luogo che non avevano assaporato. Una stanza che si paga l’affitto e non si preoccupa di spingersi oltre. Avevano pensato che fosse femmina, dalla calma con cui serviva le fessure sotto la porta. Una ragazza dalle dita fine, da poter scivolare sui cardini senza muoverli. Nessuno trovava conferma alla propria opinione. Allo stesso tempo, erano convinti che non poteva essere altrimenti.

5

A volte il barista scrollava il capo, girava il caffè nel termos, premeva la fronte con un canovaccio,
e assaporando tra le labbra il sudore, diceva di essere stato da lei una notte. Era sera piena, il bibliotecario aveva citato già tre bestemmie sulla saracinesca difettosa, i suoi amen avevano chiuso la giornata lavorativa. Per un vecchio paese il sole tramonta sotto le serrande dei negozi, non nelle gole dei monti.
Quelle rimangono lontane e il sole non sembra farci caso.
Le stelle cominciavano a punzecchiare il blu scuro della notte.
Il barista non riconosceva il cielo a quell’ora.
Lo chiamava buio, come se un altro tessuto avesse coperto la leggera seta azzurrognola.
Proprio in quel momento, in cui tutti avevano intrapreso la via di casa, il suo occhio bieco aveva scorto la finestra aperta.
Una chioma piatta che sciolinava sulle persiane grezze.


6

La ragazza non badava a lui, inarcava le dita come per salire sulle spire scure che la mancanza di luce aveva creato. L’indice indugiava il passo, mentre l’anulare, violento, spingeva da dietro.
Un andare zoppo, ridicolo. Incespicava sulle dita sorridendo, arruffando con le labbra l’aria che come un imbuto spingeva all’interno la sua pressione. Accarezzò il cordone stretto al collo. Tirò su un respiro e richiuse la cerniera della finestra. Urlò.
Il barista percepiva una nitida sensazione di sospensione, come una brezza che s’aggrappa ad un lieve tepore, aspettando che il vento disperda l’ultimo bagliore di una calda folata.
il vento tardò qualche istante, ma venne con le sue parole a confondere l’attesa.
Venne con le foglie secche, l’inverno scremato nella sua portata.
Le immagini ribaltate dal ruzzolare della carta.

7

Non conoscevo la ragazza. La sua esistenza è legata al dubbio, alle voci snelle dei lampioni.
Alle facce del barista che nel bicchiere di Vodka immergeva l’andare sciolto delle dita, e con esse uno strano odore di solitudine.
Lentamente gocciava il bancone, la schiena del bicchiere sbrodolava fuori.
Mescolava tra le labbra il liquore, mentre nelle guance smorzava le ginestre in fiore.
Parlava poco. Attendeva che il cielo se ne andasse. Arrivasse lei.

necroloquio
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05/03/2008 02:37

[posso lavorare sul testo di stè o devo fare una cosa a parte?]
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05/03/2008 18:31

si, se l'idea ti piace puoi lavorarci su, se no puoi ignorare il tutto e proporre una tua idea, un tuo inizio. [SM=g8091]

necroloquio
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06/03/2008 10:24

[lavoro sul tuo testo...una specie di novena in versi:-P]
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10/03/2008 17:08

[sono riuscita a finire il lavoro...perdonate solo il ritardo]

La finestra

1

Letto tiepido. Un piede scalzo sotto la coperta di lana. Il calore che scende tra le righe della pelle, fino ad arrivare dentro le ossa. Le mani umide, il freddo evaporato nel sudore.
Una maglietta di cotone rosa, impigliata sulle scapole, traccia sulla schiena una piega dolorosa, da poter ricalcare nell’acqua fredda, al mattino. La figura di lei spesa sul materasso. Quel ricamo giovanile sulla stoffa e il seno curvo, premuto sul cuscino. Le gambe slacciate su un acquerello, dove la tela cuce il movimento leggero, sulle sue labbra dure. Anche e gomiti scrosciano, come aghi, tessendo il sonno. Un sonno che si infila nella camera scura senza far rumore.

[Ci sono forme di fiato
roridi filtraggi di luce
a sedimentare nell’alba

e la mia pelle ti cerca
avanza nelle cuspidi
di questa notte che si fa inizio
Sento ancora quelle dita percorrermi
lavarmi di piacere
nell’attimo poco prima del sonno
-e si fa giorno
sull’inchiostrata avarizia di labbra-]

2

La stanza non è ben vista dal vicinato. Sporge su un cimitero e le persiane restano sempre chiuse. L’aria è afona, non emette suono. Quando la ragazza si alza sembra sospesa. Quando le cose gli scivolano di mano, non toccano terra. Il cielo non mostra il suo azzurro, le sue nicchie viola sparse all’orizzonte. Le tende non conoscono la distensione di una mano.

[Atomo di silenzio
che come fuliggine
percorre gli angoli
-nel raschiare pareti
che di luce s’ammalano-]

3

La gente nelle bottega mormora. Sulle mani incrocia filamenti d’ira da poter indirizzare sulla finestra, appesa al palazzo, estranea. Il panettiere spreca poche parole sull’uscio della camera. Saluta con la farina impastata nella bocca, con il grembiule bagnato dalla notte unta nel forno.
Gratta il suo mento robusto, aspettando che qualcuno apra il suo attendere. Riceve i soldi dalla fessura sotto la porta e striscia via nei saluti. Muti. Il pane non serve alla ragazza, tanto meno luci, sorrisi. Non apre mai la porta. Il panettiere non ci fa caso, il suo pane è preso ogni mattina. Qualcosa deve pur uscire dalla porta, esordiva davanti alla clientela.
Il mio pane non va in giro a bussare. La signorina non ama essere disturbata.
Le sue parole sembravano turbate, uscivano sconnesse, senza un filo logico.
Tratte da una lingua che correva su dei piccoli pezzi di granito.

[Voci come d’infranti vetri
ciondolano sull’uscio
del silenzio che geme
e grondando lievito
ti lecco via le briciole
da ingerire
fra le grida
di mormoranti paure
-turbandomi le ore
e lacerandomi i mesi-
nell’assurdo eterno ritorno]

4

Il cimitero prestava un panorama trascurabile. Lei non si era accorta della vicinanza delle tombe. Le persone la conoscevano come un luogo che non avevano assaporato. Una stanza che si paga l’affitto e non si preoccupa di spingersi oltre. Avevano pensato che fosse femmina, dalla calma con cui serviva le fessure sotto la porta. Una ragazza dalle dita fine, da poter scivolare sui cardini senza muoverli. Nessuno trovava conferma alla propria opinione. Allo stesso tempo, erano convinti che non poteva essere altrimenti.

[Ed è dinoccolata aria
questa tua vertebra
che sbriciola paure
e ne fa spiragli
che snocciolano
e detergono
sulle tue lapidi stanche
in graffi di barlume
sguarnito]

5

A volte il barista scrollava il capo, girava il caffè nel termos, premeva la fronte con un canovaccio,
e assaporando tra le labbra il sudore, diceva di essere stato da lei una notte. Era sera piena, il bibliotecario aveva citato già tre bestemmie sulla saracinesca difettosa, i suoi amen avevano chiuso la giornata lavorativa. Per un vecchio paese il sole tramonta sotto le serrande dei negozi, non nelle gole dei monti.
Quelle rimangono lontane e il sole non sembra farci caso.
Le stelle cominciavano a punzecchiare il blu scuro della notte.
Il barista non riconosceva il cielo a quell’ora.
Lo chiamava buio, come se un altro tessuto avesse coperto la leggera seta azzurrognola.
Proprio in quel momento, in cui tutti avevano intrapreso la via di casa, il suo occhio bieco aveva scorto la finestra aperta.
Una chioma piatta che sciolinava sulle persiane grezze.

[In stantii sapori sulla lingua
a sudare desideri
di vergini notti

quando tutto sferraglia
stordendo la notte
e la luna
Mentre danzando nel vuoto
annuso quelle stelle
che adunche mi arridono
Mentre in bave di luce
annichilisco il mio sapere
vomitando luce]


6

La ragazza non badava a lui, inarcava le dita come per salire sulle spire scure che la mancanza di luce aveva creato. L’indice indugiava il passo, mentre l’anulare, violento, spingeva da dietro.
Un andare zoppo, ridicolo. Incespicava sulle dita sorridendo, arruffando con le labbra l’aria che come un imbuto spingeva all’interno la sua pressione. Accarezzò il cordone stretto al collo. Tirò su un respiro e richiuse la cerniera della finestra. Urlò.
Il barista percepiva una nitida sensazione di sospensione, come una brezza che s’aggrappa ad un lieve tepore, aspettando che il vento disperda l’ultimo bagliore di una calda folata.
il vento tardò qualche istante, ma venne con le sue parole a confondere l’attesa.
Venne con le foglie secche, l’inverno scremato nella sua portata.
Le immagini ribaltate dal ruzzolare della carta.

[Il tuo fiato si fa mancanza
come lame sul fianco
a mancarmi respiro
Scorre la corda
arruffa la gola
sfregando malinconie
Camminando appena
in saltelli e scrosci
nel silenzio inumano]

7

Non conoscevo la ragazza. La sua esistenza è legata al dubbio, alle voci snelle dei lampioni.
Alle facce del barista che nel bicchiere di Vodka immergeva l’andare sciolto delle dita, e con esse uno strano odore di solitudine.
Lentamente gocciava il bancone, la schiena del bicchiere sbrodolava fuori.
Mescolava tra le labbra il liquore, mentre nelle guance smorzava le ginestre in fiore.
Parlava poco. Attendeva che il cielo se ne andasse. Arrivasse lei.

[Inoculando alcool
sommergo la vita
e ne prosciugo gli argini
nell’implosione di un cielo
che si deterge di lei]
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Sesso: Maschile
18/03/2008 12:31

non ho capito un cazzo. che dobbiamo fare? qualcuno ha fatto qualcosa?
18/03/2008 14:47

Io credo che l'incipit sia stato ben recepito da Ste e Morfea... chiederei ai due di continuare il loro duetto, come più gli aggrada; poesia in prosa, prosa spezzata da versi, o qualunque altra forma credo verrà fuori qualcosa di buono; Paco se ti vuoi inserire, puoi lavorare anche tu sul testo di Ste come più ti aggrada. Io per il momento mi tengo in disparte, torno per il riassemblaggio, che a quanto pare sarà faticoso quanto quello degli eroinomani... eroinomani fra l'altro che ci hanno fatto guadagnare parecchi punti, poiché i commenti su officina sono molto più stringati dei complimenti che ho ricevuto a telefono da qualche officiante... dai ragazzi continuiamo così. ave



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Città: ROMA
Età: 38
Sesso: Maschile
27/03/2008 09:56

questo è il mio momento ascetico. Dove mi urta toccare, vedere,sentire, assaporare, parlare. Preferirei che intervenissero gli altri due componenti sul testo, in questo momento non sarei di grande aiuto per un collettivo. Un collettivo richiede pazienza e richiamo della pazienza, a me sembra mancare, scusate dura poco.

necroloquio
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